E così partì. Nella notte. Sola con la sua valigia. “Così è partire” disse. E tese il suo agguato alla tristezza. Guardò dal finestrino del treno. Gocce di pioggia rigavano il vetro, alcune tornando indietro, creavano nodi improbabili, pronti a disfarsi al minimo soffio di vento. La luce nei vagoni che puzzavano di velluto rancido era un magro conforto per le sue ossa tenute strette per non cedere, nel cappotto nero che la vestiva come un accappatoio. La pioggia l’aveva rovinato. Troppe piogge. Le era restato solo mantenersi il cappello sulla testa. E andare avanti, donna e bambina. Più bambina che donna, perché è così che si sbaraglia la morte.

“Posso?”. Un giovane profumato, con un cappotto blu e una valigetta grigia le si sedette di fronte, facendo di tutto per attirare l’attenzione. “Piove eh!” rincarò. “Già” rispose lei, con la solita formalità scialba da segretaria, che aveva appreso per sopravvivere alla civiltà. Sapeva di fumo lui, ma le piaceva. Il taglio all’indietro, coi capelli un po’ lunghi, metteva in risalto il bell’ovale del viso. Gli occhi erano verdi, le ciglia curate, una barba sottile e altrettanto curata lo valorizzava.

“Va a Roma? Io sono un attore e…”.

Si udii il fischio del treno. La notte si mosse in esso.

“Cos’è che rende Roma tanto bella?” disse lei, d’un fiato.

“Non so. Forse è una città bella, perché non si aspetta niente”.

Lui le piantò gli occhi dentro. Gli piaceva. Decisamente.

“Per questo è la città degli artisti. E dei samurai, in fondo”

Lei gli lanciò un’occhiata interrogativa. Cambiò di nuovo la posizione delle gambe.

“Il samurai vive concentrato nell’attimo. Lì è la sua vittoria”

Ancora silenzio.

“La sua vittoria sulla morte”.

Le luci si spensero. La gamba dell’uomo toccò il suo ginocchio. Si spinse più dentro. Era un sogno. Lei non sapeva dove stava andando. Lei e la solitudine. Lei e l’attore. E fu nel buio, nell’odore di uomo che le stava accanto che la vide, la sua solitudine. Stava disegnando a carboncino quella notte. Ed era felice. E quello che disegnava non significava assolutamente niente. Per questo era bello: il suo disegno non si aspettava niente. E lei era un legno fradicio e andava bene così. Poteva essere Pinocchio. O meno di un burattino. Poteva essere l’uomo che aveva di fronte, che la prese lì e nessuno può mai sapere quale magia incastrò i loro corpi in quell’amplesso incredibile. Fu come divorarsi sull’orlo della notte, col mare ruggente di sotto.

Tornò la notte intera, dopo. E per la prima volta lei ne udì la voce. E in essa mille voci. Il regno degli spiriti si riversava, come una marea, nel suo cuore. Si poteva impazzire, con tanta gioia nel cuore! Non si salutarono mai. Forse non si erano mai incontrati, quell’uomo e quella donna. Solo lei disse al capostazione, guardandolo negli occhi, una volta scesa a Termini:

“Sa perché Roma è così bella?”.

E fu con quella domanda come unico bagaglio, che attraversò la via.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *