Si chiamava Jack e non si può dire  che fosse cattivo.
Ma, alla vista di una tonaca o qualcosa di simile,
scattava nella sua testa….
 
 
Il mio cane Jack, un bestione peloso che sembrava un collie con appiccicata la testa di un pastore tedesco, poteva sembrare notevolmente anticlericale.
Quando scorgeva un prete o una suora, il suo pelo si drizzava come aculei di un porcospino. Un istante dopo si piazzava davanti ai malcapitati, deciso a sbarrare loro la strada.
Ringhiava, brontolava, abbaiava, pronto ad azzannare tonaca o clergyman.
Le sue vittime non lo sapevano, ma Jack, in tutta questa sua messinscena, era un’impostore: l’unica volta che in vita sua aveva catturato un coniglio era stato per errore; lo aveva inseguito e raggiunto solo per giocarci; dopo averlo fatto sballottare in qua e in là, lo aveva tenuto delicatamente sotto una zampa finché – con sua sorpresa – l’animaletto era morto di paura.
Ma alla sola vista delle zanne di Jack, più di una “Piccola Sorella dei Poveri” si era convinta, atterrita, che l’ora del suo martirio era suonata!
E il giorno di un martirio giunse!
Ma Jack aveva scelto la suora sbagliata, che gli assestò un colpo tra gli occhi; per tutta risposta, Jack le azzannò una manica scrollandole il braccio con tanto vigore da far sembrare che la pia donna stesse impartendo un’enfatica benedizione a tutto il vicinato.
Inutile affermare che, quando finalmente riuscì a liberarsi, la suora s’indirizzò di gran carriera al più vicino posto di polizia.
Jack se ne tornò invece orgoglioso a casa nostra, con il bocca le insegne del nemico….in pratica un brandello di stoffa nera.
Mia madre temeva soltanto due categorie: preti e poliziotti.
Adesso eravamo nei guai con entrambi.
Quel giorno stesso, infatti, all’ora del tè, un gigantesco poliziotto ci rese visita.
Era l’agente Guerrini, soprannominato “Il Gatto” perché una volta era saltato giù da un muro alto tre metri per acchiappare un ladro di mele. Aveva due occhi azzurro pallido; freddi come chicchi di grandine; le sue guance erano ricoperte da ispidi peli neri.
Desiderava incutere timore quanto altri desideravano esser amati.
Mio padre, che conosceva “Il Gatto” come un tirchio, capace di negare perfino il favore di dire l’ora, lo guardò di traverso.
Mia madre, messo da parte ogni ritegno, cominciò invece a fare la smancerosa. Spinse una sedia contro le ginocchia del Guerrini, insistendo perché accettasse una tazza di tè e facendo capire, con una strizzatina d’occhi, che l’aspetto arcigno del questurino non la turbava per nulla.
“Il Gatto” rimase zitto e sornione, mentre la voce della mamma si scaricava come un giocattolo a molla.
Quando si decise di parlare, le sue parole sembrarono randellate. Eravamo i padroni di un animale pericoloso. Era stata sporta una denuncia. Avremmo ricevuto una comunicazione giudiziaria. Arrivederci!
Sulla soglia si voltò, rivolgendosi a mio padre:
“Mi ascolti, buon uomo” disse con una voce stentorea “la faccenda finirà in tribunale: se desidera che il caso sia giudicato con indulgenza, le consiglio di sbarazzarsi del cane. In caserma abbiamo un fucile a questo scopo e una delle guardie non esiterà a piantargli una pallottola in corpo”.
Era subdolo.
Dall’espressione di mia madre, capivo che lei avrebbe afferrato quell’occasione e lui lo sapeva.
Mio padre poteva anche infuriarsi, ma in casa era la mamma che comandava e il suo terrore della legge era quasi atavico.
Il giorno dopo, a colazione dissi: “Non ammazzerai Jack, vero, mamma?” Lei non rispose e mio padre intervenne; “Neanche per sogno! Non darle retta.”
Trascorsi tutta la giornata nei pressi di casa.
All’ora del tè mi mandarono a portare un biglietto al negozio del sig. Tonino.
Mentre tornavo a casa di corsa, vidi mio padre sbucare dal vialetto, trascinando il cane legato ad una fune.
Capii che l’incarico affidatomi era stato un pretesto e che mio padre era diretto al porto per annegare Jack.
Sapevo che i miei genitori non erano crudeli: avevo spesso sentito mio padre inveire contro le persone che abbandonavano gli animali indesiderati. Ma ai suoi occhi l’annegamento doveva apparire una morte misericordiosa.
Ignoranza? Forse, oppure si trattava semplicemente di mancanza d’immaginazione:
non riusciva a figurarsi il panico dell’animale, la lotta per respirare, i polmoni che scoppiavano….
E, per testardaggine, non voleva concedere al “Gatto” la soddisfazione di far morire Jack con una pallottola nel cranio.
Vedendo mio padre e il cane scomparire in direzione del porto, mi misi ad urlare.
Ero pazza di rabbia contro mia madre e piena di disprezzo verso mio padre, che non osava tenerle testa.
Mi lanciai all’inseguimento.
Ciò che accadde in seguito rimane – dopo più 40 anni – impresso a fuoco nella mia mente.
Era ottobre e soffiava un forte vento da nord- est.
C’era l’alta marea e il mare si rovesciava sulle banchine con grandi ondate che ribollivano intorno alle barche, inondando gli scali d’alaggio, per poi ritirarsi per un nuovo assalto.
Una nassa per aragoste, investita dal vento, rotolava lungo la strada.
Nell’aria turbinavano foglie e rami.
Una delle due banchine era un lastrone di granito che sporgeva dal molo; l’altra, situata ad angolo retto, era esposta in pieno alla violenza delle onde e costeggiata, di fronte al mare, da un muretto di protezione.
Quando raggiunsi la cima dello scalo; semi accecata dagli spruzzi, scorsi mio padre ai piedi del muretto di protezione.
Teneva fermo il cane tra le ginocchia e legava intorno ad un blocco di cemento un’estremità della fune che aveva usato come guinzaglio.
Gridai; ma il vento copriva la mia voce e, prima che potessi raggiungerlo, mio padre sollevò Jack e il blocco di cemento e li gettò in mare.
Mi arrestai di botto a pochi metri da lui; in vita mia non avevo mai visto un’espressione così angosciata come quella dipinta sul volto di mio padre quando lui si voltò e mi vide.
Poi un’altra muraglia d’acqua irruppe tra le due banchine e, incredibilmente, vidi Jack sulla cresta dell’onda, le zampe che battevano freneticamente l’acqua e l’aria.
Più per impulso che per coraggio, mi precipitai giù per gli scalini intagliati nel granito.  Senza saperlo, mi trovano nel cavo dell’onda che retrocedeva; un istante dopo il mare sorse dal nulla: mi circondava i fianchi, il petto….
Mi trovai sott’acqua; non sentivo più gli scalini sotto i piedi.
Aprii la bocca per prender fiato, ma inghiottii acqua di mare.
Poi sentii uno strattone, il peso del mio corpo e il dolore lancinante d’essere sollevata per i capelli.
Fui issata su per gli scalini e gettata sulla banchina come un fagotto di stracci. Tossivo convulsamente, ero scossa da conati di vomito, e il vento gelido mi sferzava attraverso gli abiti bagnati.
Avevo perso una scarpa.
Il momento successivo, distinsi la figura sfocata di mio padre sugli scalini sottostanti.
Con una mano si teneva ad un anello d’ormeggio, tendendo l’altra per afferrare Jack, e intanto gridava: “brutto cagnaccio, vieni qua!”
Si chinò, cercando di prenderlo per il collare. Il cane fu sommerso da un’ondata che lo gettò sui gradini: Jack agitò freneticamente le zampe per non ricadere in mare, perché il blocco di cemento era ancora legato alla fune.
Mio padre afferrò la fune e tagliò la corda. Poi, seduto in una pozza formata dall’acqua che gli colava dagli abiti, fissò me e Jack che si scuoteva l’acqua di dosso come se niente fosse.
“Povero me!” Sospirò mio padre “cosa ho fatto di male per meritarmi due buffoni come voi?”
Ci avviammo tutti e tre verso casa: la mia unica scarpa era piena d’acqua e i calzoni fradici di mio padre schioccavano al vento come una frusta.
Il cane apriva il cammino, a coda alta, apparentemente tutto allegro per la nuotata.
“Ci ammazzerà!” diceva mio padre. “Tua madre sarà furibonda.”
Prese ad elencare la litania delle nostre disgrazie: la mia scarpa perduta, i vestiti rovinati, l’inevitabile pleurite che l’avrebbe colpito, la tisi galoppante che mi aspettava e… il mancato annegamento del cane.
Quando fummo sulla soglia di casa, mio padre non avrebbe potuto avere un aspetto più disperato, neanche si fosse trovato ai piedi di una forca.
Appena papà aprì la porta, il cane s’intrufolò, diretto in cucina dove la luce era accesa.
Lo seguimmo, preparati alla maledizione e alle grida che l’avrebbero accolto.
Invece, la mamma era in ginocchio, il viso bagnato di lacrime e le braccia intorno al collo del cane.
“Dio sia lodato!” disse “è tornato da me!”
Intanto Jack le leccava il volto e si guardava intorno in cerca della scodella del cibo.
“Poveretto! E’ tutto bagnato! Hanno cercato di annegarlo?” Domandò con un’impudenza che ci sbalordì.
Stava ancora accarezzando Jack quando la sua attenzione fu attratta dalle due pozze d’acqua che si andavano allargando sul linoleum.
Alzando gli occhi, vide mio padre e me.
Il procedimento giudiziario non si materializzò mai.
Forse il sergente, che da tempo considerava “Il Gatto” come una spina nel fianco, si limitò a cancellare un nome su un registro e tutto finì.
Mio padre, per quieto vivere, acquistò una museruola per Jack, che riuscì però a liberarsene fin dal primo giorno, riducendola in pezzi a furia di morsi.
Visse, perseguitando preti e monache, per altri nove anni.
 

4 commenti su “Il mio cane Jack”
  1. ciao cara non so quando hai scritto ciò ma mi sembra un romanzo, stento a credere che la vicenda sia vera, ma se anche non è vera complimenti per la fantasia e il modo di esprimerla, nel qual caso invece fosse vero, allora ti rendo noto che la vicenda ed il tuo modo di colorirla sono commoventi, per ki ama i cani.
    ciao ed auguri
    ps un saluto a jack

  2. Ciao, ho letto tutto ciò che hai scritto, ti dico che anche io avevo un cane, si chiamava “scilla” ma io la chiamavo sciletta perchè era piccola piccola.
    L’avevo presa in un canile di Cagliari, ma lei con me visse solo una settimana, una brutta malattia me la portò via quando io ero a un compleanno, era a casa con mia nonna lei non potè fare niente per salvarla e così se ne andò.
    Quanto darei per riaverla con me, e magari avesse vissuto come il tuo cane Jack.
    Certe volte penso che lei mi guardi da lassù. Con il suo tenero musetto e i suoi piccoli dentini. Non so se il tuo cane Jack è ancora vivo ma anche se fosse ti dico di salutarmelo.
    ciao mary

  3. Se questa è una storia vera sono contenta che jack si salvò, visto che io amo i cani; sono sicuramente migliori di alcuni essere umani.

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