Dove andare?
Alla mia destra si erge nella sua luccicante imponenza nichelica un centro commerciale sovraffollato. Da quella parte sicuramente no. Alla mia sinistra altro cemento a cui hanno dato la forma di un grosso deposito. E’ sbarrato da inferriate arrugginite e sulle grate è appeso un avviso di pericolo in precario equilibrio. Intorno all’edificio si srotola un terreno brullo su cui spunta qualche raro ciuffo d’erba. Decido che è perlomeno da tenere in considerazione. Soprattutto ora che i raggi cremisi del sole morente battono sui laminati ai fianchi dell’edificio creando curiosi giochi di riflessi, il luogo scatena una certa attrattiva per uno come me. Davanti c’è la lingua sinuosa di una strada periferica che si getta nella statale, dietro lo studio del maledetto psicologo da cui sono appena fuggito. Sono interdetto. Nell’indecisione alzo lo sguardo verso il cielo, la splendida vastità del quale mi risponde con espressione neutra ma amichevole. Le nubi gravide di pioggia si rincorrono al ritmo immutabile del tempo, portando con sé l’odore acre che precede la pioggia. Sarebbe stupendo, ma da quella parte niente da fare. Almeno per il momento.
Con una leggera scrollata di spalle proseguo avanti, lanciando uno sguardo carico di desiderio al deposito dietro di me. Verso ovest, dunque, verso il sole che cala.
Fortunatamente per le mie ascelle ha cominciato a soffiare una brezza deliziosa che solleva le foglie cadute dal dorso e le fa ricadere dalla parte opposta dopo una lunga evoluzione in avvitamento. Mentre cammino con un passo elastico che sembra quasi una danza mi sforzo di pensare alle prossime mosse: purtroppo la mia mente sembra entrata in una specie di stasi dove il tempo scorre diversamente dal resto del mondo perché, diversamente da questo, nella mia mente il tempo non scorre affatto. Si limita invece a inviare i comandi fondamentali alle parti mobili della mia anatomia e a osservare la bellezza del sole che si tinge di rosso nella sua rapida corsa verso la fine, come un bambino di fronte alla proiezione di un film al cinema. Qualcosa di questi pensieri soffocati da una coltre misteriosa che mi impedisce di udirli arriva a me, perché d’un tratto mi guardo intorno alla ricerca di un barattolo di pop-corn. Sono costretto a constatare di essermi sbagliato. Non di essere pazzo, questo no: non lo ammetterei mai. La convinzione della mia sanità mentale in questo momento è più forte di quanto lo sia stata mai. Concludo che è meglio non pensarci. E’ meglio non pensare a molte cose in questo mondo infestato da troppo pragmatismo, dopotutto. E’ meglio lasciare che le celesti ombre della notte calino su di me e che abbraccino con la loro presa soffocante i materiali organici o meno – non ho mai avuto una passione particolare per le scienze – che compongono i miei ricordi, se questi sono tangibili. E’ meglio arrendersi. Lasciarsi cadere. Perché le ombre del baratro sono amichevoli, in un loro modo tutto particolare, certo, ma hanno la piacevole peculiarità che è tipica del sonno: il dolce far nulla, l’annullamento costante e sistematico di ogni pensiero razionale. Potrà non sembrare una gran cosa, però… io ci sono andato molto vicino. So cosa significa, e credetemi: la misteriosa tenda fluttuante che separa il conscio dall’inconscio nasconde soprattutto momenti così orribilmente reali – che non sono legati a nessun atto di immoralità o illegalità, badate bene – proprio per il fatto che invece sono parte della natura umana. O meglio, che non ne fanno assolutamente parte. Non capirete mai di cosa sto parlando e ogni tentativo di indurmi a raccontarvelo sarebbe inutile, perché comporterebbe la risalita alla memoria di questi ricordi. Se sono pazzo – e vi posso assicurare che non lo sono – la pazzia è uno stato d’animo invidiabile. In ogni caso, conto di finire il mio viaggio al più presto. Ho parecchia fretta: dopotutto la mia permanenza su questa terra non ha più alcun senso. No, nessun senso.
Proseguo. Il sole è quasi interamente scomparso sotto l’orizzonte e io sto perdendo gradualmente percezione dell’esterno. Ho la pelle d’oca. Si gela. E ho davvero fretta. Scorgo un deposito simile a quello su cui avevo fantasticato in precedenza. Se è possibile, è ancora più sinistro. Saranno le celesti ombre della notte che calano.
In strada non passa nessuno. Raggiungo a grandi falcate l’edificio. Non mi rendo conto che la metaforica tela divisoria su cui abbiamo fatto una piccola digressione poco fa ha appena subito un laceramento: e la mia mente immagazzina, avida. Ricordo con certezza – a livello inconscio, intendo – di un momento, uno dei peggiori, in cui lamentavo di avere una mente troppo chiusa. Dovevo aprirla, dovevo farlo! Ho con me una calibro 31. Credete che potrò spalancarla a sufficienza?
Mieik, che ci fai qui?
Non ce l’ho fatta a leggerlo tutto. e questo è un brutto segno. gloria