Era lì da solo.
In verità non era proprio solo. Con lui c’era anche il suo pc, fermo, risoluto, un vero sostegno per la sua fragile indolenza.
Non sapeva da dove iniziare, ma neppure se farlo: in sostanza, se fosse il caso di dare corpo a quei pensieri vaganti e acuminati, che non lo lasciavano mai in pace.
Ma ad un certo punto si decise. Prese l’iniziativa. Il cuore gli batteva, martellando forti rintocchi che volavano fin su, verso il cervello, per poi ridiscendere giù, sulle dita.
Tra l’altro quella cappa brumosa che scotennava i passanti gli ottundeva la testa. Come il destriero disarciona un individuo reprobo e reietto, per fargli sentire le più dolenti note, allo stesso modo penava anche lui, finché non si fece forza e decise di mettere giù tutto, nero su bianco. E ora non è più neanche solo, poiché siamo animati dalla condivisione congiunta, ciascuno con la sua innata sensibilità, curioso di ciò che incontra, attento a sottoporre ciò che leggerà a un giudizio insindacabile.
Cominciò a pigiare i tasti, prima assorto nei suoi pensieri, poi sempre più rapido e sicuro, nella piena coscienza che fosse l’unica cosa da fare. E questo è tutto ciò che ci ha affidato, ab imo corde, sine ullo dubio:
«È da tempo che mi riprometto di buttare giù qualche parola su un tema scottante e delicato come quello del vizio, ma mille remore mi hanno indotto finora ad accantonare questo proposito. Si tratta, infatti, di una di quelle realtà torbide e inquietanti sulle quali spesso si cala un velo di silenzio, dovuto a omertà, pudore, ritegno e simili valutazioni di opportunità (da parte di chi lo subisce), nonché a bieche ragioni economiche (per chi lo promuove). Dark side dell’animo umano, ombra apparentemente innocente e arginabile, ma in realtà prensile e insidiosa, per le sue forti implicazioni voluttuarie e seduttive, il vizio normalmente ingenera nelle sue vittime un’irreversibile sudditanza. La letteratura in materia, per la verità, è sterminata, né ha senso cercare di ridefinire una tematica così nota: questa breve riflessione, pertanto, va presa com’è, senza velleità né ambizioni, come pura attestazione di un’esperienza individuale, una delle tante che si potrebbero addurre sull’argomento. Ciò che mi induce potentemente a parlare, in ogni caso, è la volontà di fornire una testimonianza, diretta ed empirica, per chi è ancora impigliato nelle maglie di quel male, del fatto che gli è dato squarciarle, recuperando una buona volta la libertà di scelta e l’autonoma determinazione della propria esistenza. A me, forse, non capiterà. Ho patito i miei vizi, mi hanno soverchiato. Ora, in apparenza, li avrei debellati, ma mi hanno torturato al punto tale da sfinirmi, stremarmi, anzi inebetirmi.
In buona sostanza, senza ergermi all’archetipo di quel bieco moralista che né vorrei, né potrei mai incarnare, le dipendenze di cui vorrei parlare sono due, egualmente deleterie e pericolose: il fumo e il gioco.
Ho fumato con regolarità per dodici anni. Prima erano solo scaramucce da liceale, impegnato insulsamente nel cortile, durante l’ora di ricreazione, per darsi arie e toni da grande. In caserma appresi la mala arte della sigaretta: ampi intervalli da trascorrere all’interno di quella cinta muraria, occupazioni completamente diverse da quelle usuali, la maggioranza dei commilitoni intenta ad aspirare con ostentata e inusitata voluttà quei grati aromi, che espirati con maestria riuscivano, essi sì, ad evadere nell’etere, con le loro ampie volute, valicando l’oppressiva cerchia perimetrale della struttura castrense.
E così cedetti, incapace di resistere a una tentazione insistita, a un modello presente e seducente. Ero giovane, forte, e per di più il vaccino quinquennale somministratomi durante l’addestramento mi faceva sentire praticamente invulnerabile; non pensavo ai danni che quella pratica scriteriata avrebbe prima o poi prodotto nel mio organismo, illuso di una quotidianità vigorosa e rassicurante.
Ma un giorno la incontrai e persi la testa. Mi invaghii al punto tale che il mio regalo per il nostro primo mese di fidanzamento fu quello di prometterle che avrei smesso di fumare. Finimmo di cenare, uscimmo fuori e… una volta all’aria aperta, avvinto da un’irresistibile tentazione, accesi una sigaretta. Cosa ci poteva essere di più appagante, gratificante? Lei mi guardò turbata, di fronte alla mia singolare trasgressione: avevo appena promesso… Ed io le replicai che avevo detto, certo, che l’avrei fatto, ma senza specificare quando, per cui avrei riservato ancora molti anni a quella voluttuosa i/aspirazione; che poi non consisteva in un desiderio legittimo e onesto, ossia l’aspirare inteso come ambire a qualcosa di elevato. Piuttosto, enfatizzava la base etimologica del termine, in cui il preverbio, di fronte a spiro, non sarebbe mai ad, bensì ab… e comunque un nemico giurato del re di respiro…
Passavano gli anni, ma il fumo no. Presente, appagante, palesemente infrangente l’antico adagio per cui “ogni promessa è debito”.
Un giorno nacque lui: bello, biondo come il sole, agile ma delicato in ogni espressione e movenza, splendido insomma. E non vedeva l’ora di saltar fuori dalla culla! Fu così che al suo settimo mese, mentre lo guardavo, appoggiato alla finestra con in mano il solito mozzicone, ovviamente spento in sua presenza, ma comunque evidente, mi resi conto che mi stava spiando. Cos’ero diventato, ormai? Una vedetta sguarnita, un focolare spento, una serratura forzata: il suo sguardo era curioso e penetrante, aveva scoperto qualcosa che lo intrigava, attraendolo irresistibilmente… E la vittima predestinata ero io, il padre, ossia proprio chi lo avrebbe dovuto preservare da simili abomini, autolesionistiche decurtazioni della vita! Nella mia mente si affacciava il futuro, lo vedevo cresciuto, con la cicca tra i denti, a ridermi in faccia mentre cercavo di dissuaderlo… “Ma che vuoi, come ti permetti di dirmi queste cose, se anche tu lo fai?” Fu così che buttai subito quell’orrore che mi ingombrava la mano. Non solo, corsi subito a prendere tutto il pacchetto, perché facesse la stessa fine. Subito mi fermai. Era ancora integro, da scartare. Del tutto sano, almeno lui. E scelsi di non buttarlo, perché mi scortasse, come un monito perenne. Lo custodii nel cassetto del comodino, accanto al letto. Ed è ancora lì, immobile, inamovibile, a ricordarmi quel che fu, ma non sarà mai più…».
Non sapeva se proseguire. Aveva toccato il fondo. La sofferenza di un passato sconclusionato lo deprimeva. E fu così che la mente gli fu pervasa da quell’altra smania, che lo aveva funestato per un periodo non così lungo, ma neanche meno intenso: il gioco. Le elucubrazioni presero di nuovo il sopravvento, e fu così che venne alla luce la seconda parte del suo parto.
Mise subito giù, infatti, quanto segue:
«Scommettere fa parte della natura umana. C’è chi pensa che sia una cosa giusta, come mettere alla prova le proprie facoltà determinanti ed euristiche. Eppure c’è dell’altro. Vuol dire non solo sfidare la sorte, ma anche le risorse intuitive. Chi mette in gioco il suo denaro per l’incertezza dell’imponderabile spesso non sa a cosa va incontro. Ma soprattutto amplifica il godimento pregustando l’incremento delle risorse, che tuttavia è sempre appeso a un filo. Le probabilità di vittoria, in effetti, sono sempre inferiori rispetto a quelle del temibile rovescio. Altrimenti non esisterebbero simili istituzioni, non riuscirebbero a sorreggersi. È chiaro che le alimenta la disfatta degli sfidanti, il periglioso abisso in cui sono inevitabilmente destinati a piombare…
Un giorno notai che in tre partite della Champions League il risultato era prevedibile; eppure, vista la forza di tutte le compagini in lizza, le quote erano molto interessanti; non solo, ma la moltiplicazione degli effetti interni lasciava trapelare una vincita straordinaria. Puntare tot voleva dire poter ricavare sei volte tanto. Senza il minimo sforzo.
Fu così che decisi di provare. Investii tanto, quanto avrei guadagnato in mesi e mesi di lavoro, convinto della bontà della mia iniziativa. Il primo match mi arrise, in tutto e per tutto. Vinse la squadra che avevo pronosticato, già ero a un terzo dell’opera…
La seconda partita fu molto più equilibrata, ma comunque fin dall’inizio orientata nella direzione che avevo ipotizzato. Ed ebbi ragione, ancora una volta.
La terza fu un terno al lotto. Stavolta avevo previsto il pareggio, visto l’equilibrio effettivo tra le due compagini. Ma nell’incertezza avevo scelto un 1X, ipotizzando che la squadra favorita, che giocava in casa, magari sarebbe stata in grado di spuntarla proprio alla fine, come spesso accade… Un rischio contenuto, ma pur sempre tale.
Mancava solo un minuto, Il denaro era ormai nelle mie tasche: un cospicuo profluvio, sopraggiunto senza il minimo sforzo. Ed io ero là, beato della mia buona sorte, pronto a sperperarlo in piaceri vacui e inconsistenti…
Fu allora che l’arbitro fischiò un calcio di punizione dal limite per la squadra meno accreditata. Si apprestò a batterlo lo specialista, uno dai piedi buoni, tecnico, e per di più decano. Poggiò la palla a terra e prese la rincorsa. Calciò con il massimo stile e una potenza inaudita. Il portiere volò per bloccare la sfera, ma non riuscì a intercettarla: troppo forte il tiro, troppo preciso. S’infilò nel sette, nulla da fare per gli avversari, era quel 2 che vanificava ogni mia speranza. Tanti soldi gettati al vento: impossibile recuperarli! Avrei dovuto soffrire mesi di improbabili straordinari per reintegrare quella cifra.
E così da allora ho smesso. Simili iniziative esulano dalle previsioni, non garantiscono la minima certezza, insidiano le facoltà economiche e mentali. Da allora ho recuperato la mia indipendenza, anzi il potere decisionale, l’autonomia più preziosa e completa, che ci difende dalle coercizioni esterne.
Vivere è poter scegliere, non dover subire. Saper vivere è procedere liberamente, non sottostare a condizionamenti esterni. Avevo finalmente capito cosa fare, ma soprattutto che la dipendenza passiva è fonte di schiavitù e soggezione. Chiunque sottostà non riesce a emanciparsi, non può scegliere la propria strada né scongiurare l’inevitabile sottomissione».
Stanco, anzi distrutto, non aveva più forze. Si coricò e chiuse gli occhi, affranto per aver ceduto di schianto alla sintesi sfibrante di dolore e memoria.
E fu allora che il perverso connubio di stanchezza e avvilimento aprì la strada a una nuova realtà.
La mattina seguente avrebbe accantonato ogni forma di dipendenza. Meditare nel profondo lo aveva ristorato, traendolo in salvo.
Una nuova vita gli sorrideva davanti: vergine, genuina, rinfrancante.
Il resto, ormai, era solo un brutto ricordo.
Sincero, coinvolgente. Con scrittura sapiente e ritmo incalzante, l’autore mette a nudo le fragilità del protagonista, nel quale il lettore è indotto istintivamente ad identificarsi. Chi di noi non si trova prima o poi a combattere contro un demone che tenta di distruggerlo? Chi della vita ama tutto, spontaneamente e senza mezze misure, senza innalzare difese, dalla vita a volte è gratificato, a volte annientato.
Grazie alla felice trovata della confessione catartica il riscatto del protagonista diventa il riscatto del genere umano, imperfetto, peccatore, ma ancora capace di scegliere il bene.
Per l’uomo, depositario della scintilla divina, la redenzione è sempre possibile.
Se un uomo è solo, non è poi proprio solo del tutto: in lui, sempre e comunque, c’è un rospo. Non è facile capire cosa un rospo ci stia a fare in una persona, ma non c’è dubbio che quest’animale abbia eletto il corpo umano a sua magione preferita. Quando pensiamo, lui ci regge la testa; quando ci vergogniamo, lui ci si siede in gola, per avvertirci della sua presenza, del suo sguardo, del suo giudizio; quando dormiamo, è lui a pensare i nostri sogni. Ma se il rospo è addormentato? Non è eccitante essere, anche solo per un momento, così soli, così inosservati, mentre lo lasciamo scivolare nel fiducioso silenzio di chi dorme? Ma un rospo non dorme mai, non quello di cui parliamo. E i sogni del nostro rospo non li pensiamo noi, no, non ricambiamo il favore: dei suoi, ce ne vogliamo liberare, per non ricordarci della sua presenza assopita. Quei sogni li lasceremmo sfumare così, via, attraverso una sottile canna fumaria, invisibile fra la gravità dei tetti, e che ci lascia invece soffocare piano piano, complici della nostra ebbra fine. Ecco allora il disappunto, la delusione, la tosse: il custode ora è sveglio, si dimena, tradito, vuole dire la sua, ma noi lo soffochiamo, di concerto con i vapori venefici dell’infernale camino. C’è freddo, ci vergogniamo terribilmente di noi e temiamo il nostro rospo, testimone dimenticato delle nostre azioni, che invece smania per essere sputato, per salvarci da una terribile condanna e scampare lui alla vendetta del vizio, sottile ma forte, appuntita. E allora ci vuole il “destriero”, come dice il nostro autore, ci vuole lo sdegno, anche civile, se quel caminetto infernale lo alimentano le ipocrisie e gli ingranaggi di una società intera; è questa la via del riscatto, del coraggioso affrancamento della nostra coscienza. Ed ecco che l’autore, cavalcando quel destriero indomabile, focoso e popolare, oltre ad essere “Homo”, come ogni scrittore dovrebbe, nell’affrontare a tutta prova di coraggio un rospo in libertà (che sia il suo proprio o uno di sua creazione non conta), adempie anche in pieno al suo dovere di Cittadino, di “Civis”: la penna, intrepida arma di sfondamento, mira dritta alla piaga del dilemma, alla liberazione, e i lettori, compresi dalla narrazione, ce la spingono dentro, ciascuno a suo modo, in un meraviglioso sforzo collettivo; e così dall’individuale nasce l’universale, dal soggettivo il comune, il sociale. Ecco, per me, una delle tante ragioni per cui è necessario scrivere e leggere: io, oggi, ho letto.
Firmato: L’Anfibio Tribunale dei Lettori
Un fanciullo, sino a quando diventa autonomo, dipende da chi lo accudisce. Ha necessità di essere sostenuto, incoraggiato sino a quando non impara a funzionare da solo. Nel processo di individuazione e separazione dalle figure genitoriali, il piccolo conquista la capacità di sentirsi uno che si relaziona con l’altro. Se tale procedimento non evolve in modo funzionale l’adulto continuerà a comportarsi da bambino, guardando fuori e aspettando che il soddisfacimento arrivi da altro. Come un uccello affamato aspetta di essere imboccato… Sentendosi devastato se il nutrimento esterno non arriva.
Tutti necessitiamo di tutto e di tutti. Ma è il quanto che fa la differenza. La vita relazionale è fatta di momenti di incontro e anche di scontro. Altre volte di stare soli. C’è chi fugge con terrore questo stare soli con sé stessi e, quindi, va in cerca di compensazioni, consolazioni esterne che possono diventare distruttive, pur di non volersi prendere cura di sé stessi.
Chi sviluppa una dipendenza non ha appreso il passaggio dal “noi” all’”io”. Resta in attesa di un soddisfacimento esterno, rimane appoggiato a qualcosa per funzionare.
Il viaggio di ritorno è andare a ricostruire quella parte di sé che non riesce a fare “senza”. La persona che ha una dipendenza da sostanza (alcool, droghe, cibo…) oppure una dipendenza da un determinato comportamento (gioco, sesso, acquisti compulsivi…) oppure da una persona non riesce a immaginarsi “da sola”. Non appaga mai il bisogno poiché non sapendo restare nell’attesa, ha un senso di urgenza e avidità: vuole di più! Sempre! Tanto e subito! E non è mai abbastanza!
Questo stato di continua frenesia del non avere abbastanza, provoca un lento appiattimento della persona che si percepisce solo in termini di “con” e mai “senza”. Non si riesce a staccare la spina. Incapaci di inter-relazionarsi, danzare e condividere e poi tornare a sé, stando dritti senza stampelle.
Si perde il senso del bello. L’incanto per la pienezza della propria vita percepita sempre vuota.
Paradossalmente – per un soggetto come il sottoscritto che potrebbe apparire come estremo, rigido e tutt’altro che comprensivo… in quanto non ha mai fumato, non ha mai bevuto un alcolico, non ha mai bevuto un caffè, che per anni ha predisposto e organizzato (gratuitamente) corsi per smettere di fumare… – risulta facile esprimere un sentito compiacimento vedere chi ha intrapreso il “viaggio di ritorno in sé stessi”. Questo perché apprezzo chi ha avuto la maturità e la forza di comprendere che “l’altro” è un viaggio non salutare. Questo perché apprezzo chi riesce a stare dritto “senza”.
Se poi – chi è tornato in sé – riesce anche ad avere un modus agendi propositivo, formativo e disinteressato per stimolare chi “ancora non è tornato”, mi convinco che non tutto il male viene per nuocere e che il principio machiavellico del fine che giustifica i mezzi, in qualche caso, potrei addirittura accettarlo.
Se poi, la propria esperienza di “ritornato”, è offerta con cotanta poesia e trasporto, profondità di pensiero e assoluta limpidezza, non posso far altro che rimanere incantato!
Davide Vitiello